L'etimologia della parola spilorcio rimane ufficialmente incerta. Tuttavia, la spiegazione più accreditata e suggestiva ci viene dalla Firenze del Seicento, dalle "Note al Malmantile Racquistato". Il Malmantile Racquistato è un poema eroicomico scritto da Lorenzo Lippi, un pittore fiorentino, tra il 1643 e il 1644. Lippi era alla corte di Claudia de' Medici ad Innsbruck, e decise di scrivere una parodia grottesca della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. L'opera racconta, in dodici canti, una strana guerra tra la regina legittima Celidora e l'invasatrice Bertinella per il controllo del reame di Malmantile, con tanto di draghi, demoni, maghe e diavoli. Quello che rende straordinario il Malmantile non è tanto il poema in sé, ma il modo in cui è scritto: è farcito di espressioni, motti e proverbi della Firenze popolare del primo Seicento, ricco di quella vivacità, comicità e malizia del parlare ordinario. Il linguaggio è così specifico, così ricco di dialetto e di peculiarità locali, che quando il poema fu pubblicato postuma nel 1676, il duca Leopoldo decise di far allegare delle note spiegative per permettere ai non-fiorentini di comprendere. Queste note furono scritte da Paolo Minucci (che si firmò con lo pseudonimo Puccio Lamoni), erano ricchissime di erudizione linguistica e folcloristica, e rappresentano un vero tesoro per chiunque voglia comprendere il linguaggio popolare fiorentino del Seicento. Proprio in queste Note del 1675, quando Minucci spiega il significato di "spilorcio", ricorre a una definizione che ha del geniale. Secondo Paolo Minucci, la parola deriverebbe da pilorcio. Ma cos'è il pilorcio? È un termine tecnico dell'arte conciaria. Nella bottega del conciatore, dove si lavorano le pelli, il pilorcio designa specificamente i cascami della lavorazione: i ritagli di pelle che non hanno alcun valore commerciale, gli scarti che rimangono dopo aver ricavato le parti buone. Questi ritagli, questi frammenti inutilizzabili, non venivano buttati semplicemente nel mucchio dei rifiuti. Nell'economia medievale e rinascimentale, anche gli scarti potevano avere un'utilità: venivano raccolti, opportunamente lavorati e trasformati in fertilizzante organico per i campi. Se il pilorcio è il ritaglio senza valore, allora lo spilorcio è colui che "misura il pilorcio". È la persona che tiene il conto anche di ciò che non ha valore, che nella sua grettezza estrema calcola, pesa, misura anche gli scarti. Mentre l'avaro comune è semplicemente chi non vuole spendere soldi, invece lo spilorcio non è solo chi non genera e non dà: è colui che sa quantificare persino l'inutile, che ha sviluppato un calcolo così nevrotico da applicarlo perfino ai cascami, alle cose che dovrebbero essere lasciate andare. È una persona che non conosce generosità, che "trascura bellamente ogni regola di cortesia e di giustizia pur di non dare del suo". Non è oculato nel senso di prudente: è attaccato, ossessionato, schiavo del denaro.
Una seconda pista etimologica porta al termine pidocchio. Il pidocchio, nei dialetti italiani, è da sempre associato all'idea di parassita, di persona miserabile. Nel dialetto napoletano, ad esempio, "pidocchioso" significa direttamente "avaro". La metafora è comprensibile: il pidocchio è un parassita che vive succhiando il sangue dell'ospite. E non si toglie facilmente, rimane attaccato, testardo, come l'avaro rimane attaccato ai suoi soldi. Il latino pediculus (pidocchio) viene da pedis, e le sue origini più lontane risalgono a radici della lingua protoindoeuropea. Però il passaggio fonetico da "pidocchio" a "spilorcio" presenta delle difficoltà serie: come può una /p/ iniziale trasformarsi in /sp/, come può il suono /dd/ diventare /l/, come puoi perdere la vocale finale?. Non è impossibile, ma risulta linguisticamente difficile da spiegare senza ricorrere a forme intermedie che non troviamo documentate.
Alcuni dizionari etimologici, come il Devoto-Oli, suggeriscono una terza strada: forse spilorcio è una composizione di due elementi, piluccare (che significa "staccare poco a poco, spezzare in frammenti") e scorcio (che significa "riduzione, abbreviazione"). L'idea sarebbe che lo spilorcio sia colui che "pilucca gli scorcetti", cioè che fa le riduzioni e i conteggi al millimetro. È una spiegazione elegante, ma presenta due problemi. Primo, la formazione morfologica risultante non segue i normali pattern composivi dell'italiano. Secondo, non abbiamo attestazioni storiche che documentino questa composizione in opera.
Per concludere, spilorcio è una di quelle parole che rimane viva nel linguaggio italiano, soprattutto in Toscana, ma anche in tutta Italia. Il termine spilorcio non sta semplicemente descrivendo un comportamento; sta contemporaneamente anche stigmatizzandolo: gli altri sinonimi hanno sfumature diverse. "Avaro" è diventato più "nobile", quasi paradigmatico, usato nelle discussioni filosofiche o letterarie. "Taccagno" suona più affettuoso, quasi tollerante, come quando descrive la nonna che non vuole sprecare il pane. "Tirchio" ha un'effetto meno sprezzante.
Fonti principali:
- Note al Malmantile Racquistato (1675);
- Dizionari etimologici (Pianigiani, Devoto-Oli, Treccani):
- Grande Dizionario della Lingua Italiana (GDLI);
- Studi di linguistica storica.

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