Il termine cerchio deriva dal latino medievale circulus, diminutivo di circus, che significa “cerchio” o “anello”. Circus era già un termine ben stabilito in latino classico e indicava generalmente uno spazio di forma circolare, in particolare il circo per spettacoli pubblici, come il Circus Maximus a Roma. Il termine circulus veniva spesso usato per descrivere non solo forme fisiche circolari, come anelli o cinture, ma anche cerchi immaginari o figurati, come un “circolo di amici” o “un ciclo di conoscenze”. Più a fondo, il termine latino circus ha legami con il greco antico κίρκος (kirkos) o κρίκος (krikos), che significavano entrambi "cerchio" o "anello", e facevano riferimento a una forma chiusa e continua. In greco, kirkos indicava anche il giro, il percorso circolare, che veniva tracciato per delimitare aree sacre o recinti. La radice indoeuropea da cui derivano questi termini è sker-, che significa “curvare” o “piegare”. Questa radice è alla base di diversi termini nelle lingue indoeuropee per indicare forme rotonde o curve, e dà origine a concetti di circolarità, limite e confine. Nel corso dei secoli, il significato di cerchio si è sviluppato sia in termini concreti sia in ambiti più astratti e simbolici. In breve, originariamente il termine cerchio era strettamente associato a forme fisiche circolari, come ruote, anelli o spazi delimitati. Questo significato si è conservato nelle prime forme della lingua italiana, rimanendo il termine per descrivere la figura geometrica chiusa e continua. Con il Rinascimento e l’avanzamento delle scienze, cerchio ha assunto una connotazione più precisa nella geometria e nella matematica, come figura piana perfettamente circolare, delimitata da una linea chiamata circonferenza. A livello simbolico, il cerchio è stato interpretato per secoli come un’immagine di perfezione, equilibrio e unità. In molte culture antiche, il cerchio rappresentava il ciclo della vita, della morte e della rinascita, la continuità dell’universo, e persino la forma dell’orizzonte o del sole e della luna, che scandivano il tempo e le stagioni. La filosofia medievale e rinascimentale ha adottato il cerchio come simbolo dell’infinito e della divinità, per la sua forma senza inizio né fine. Ad esempio, nella cosmologia aristotelica, l’universo era immaginato come una serie di sfere concentriche. Anche in alchimia, il cerchio rappresentava la totalità e il completamento dell’opera alchemica. Nella lingua moderna, usiamo cerchio per esprimere relazioni e connessioni sociali, come in cerchia di amici o circolo di intellettuali, indicando uno spazio figurativo condiviso. Inoltre, termini come circolo e ciclo (derivati anch'essi dalla stessa radice) sottolineano la natura continua e ricorrente di alcuni fenomeni.
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ACCATTONE, etimologia e significato
La parola accattone deriva dal latino volgare accaptare. che è una forma intensiva di captare, che significa “tentare di prendere” o “cogliere” con insistenza, ed era già in uso in epoca medievale. Il prefisso ad- (trasformato in ac- per assimilazione fonetica) intensifica l’idea di “cercare insistentemente di ottenere” qualcosa, come in una costante ricerca di opportunità. Nel passaggio dal latino al volgare, accaptare diventa accattare, che assume un significato legato non solo al raccogliere o procurarsi beni materiali, ma anche a farlo con modalità indirette o insistenti. Nel periodo medievale, accattone si sviluppa come un sostantivo derivato da accattare e identifica una persona che vive di elemosina, “accattando” ciò di cui ha bisogno. Con il tempo, però, emerge una sfumatura disprezzante: l’accattone non è visto solo come povero o bisognoso, ma anche come qualcuno che approfitta della generosità altrui. Nell’Italia medievale, la figura dell’accattone incarna in parte il concetto di emarginato, ma anche quello di una persona che non contribuisce alla società e preferisce vivere a spese degli altri, un atteggiamento visto con sospetto e disgusto. Nel Rinascimento e nei secoli successivi, il termine accattone si carica di connotazioni ancora più negative. Viene percepito come un individuo che vive sfruttando gli altri, evitando il lavoro e mirando esclusivamente al proprio interesse. In questo periodo, si sviluppano nelle città italiane forme di controllo sociale e ordine pubblico più rigide, e la figura dell’accattone rappresenta il lato “pericoloso” e disordinato della società. La parola si associa non solo all’ozio ma anche all’opportunismo e a una mancanza di scrupoli che la rende simile a quella di un sciacallo: qualcuno che approfitta della situazione con mezzi disumani e degradanti per ottenere denaro o favori. Durante il XIX secolo e la modernità, la figura dell’accattone assume una connotazione ancora più ambigua e peggiorativa, in particolare nelle aree urbane industrializzate. Accattone non è più solo il povero che vive di elemosina, ma anche colui che sfrutta le circostanze in modo subdolo e calcolatore. È una figura che si muove nell’ombra, approfittando di chi è vulnerabile o di situazioni delicate, guadagnando un’analogia con lo “sciacallo”, il quale trova profitto nella sofferenza altrui. Nel 1961, Pier Paolo Pasolini produce il film "Accattone", che esplora questa figura in un contesto più umano ma pur sempre spietato: il protagonista è emarginato dalla società e vive sfruttando le poche occasioni, anche se spesso degradanti, che gli si presentano. La figura di accattone diventa, attraverso il film, emblematica non solo di una povertà economica ma anche di una povertà morale e sociale, pur con un certo senso di rassegnazione. Nell’uso contemporaneo, accattone può indicare qualcuno che cerca di ottenere denaro, aiuti o favori senza lavorare o impegnarsi, ma il termine ha anche assunto una sfumatura di “sciacallaggio”, riferendosi a chi cerca guadagno approfittando delle difficoltà altrui con metodi meschini. La parola è usata non solo per indicare il povero, ma chiunque scelga di vivere sfruttando gli altri in modo calcolatore e disumano, evocando una figura che opera senza empatia o rispetto per gli altri, sfruttando le situazioni con metodi spregiudicati e poco dignitosi.
NANO, etimologia e significato
La parola nano proviene dal latino nanus, che indicava una persona di bassa statura o una creatura piccola. Questo termine latino è a sua volta una derivazione del greco antico νᾶνος (nanos), che significava anch’esso "persona piccola" o "nano". Già in greco antico, il termine era usato non solo per descrivere la bassa statura, ma anche per riferirsi a esseri mitologici di statura ridotta. L’uso della parola nanos in greco implicava una certa meraviglia e curiosità per l’idea di proporzioni inusuali, tanto che veniva applicata anche ad alcune creature fantastiche della mitologia. Infatti, la figura del nano appare in molte tradizioni e culture, non solo in quella greco-romana, ma anche nelle mitologie germaniche e scandinave. Nei miti nordici, ad esempio, i nani erano esseri sovrannaturali abitanti delle grotte, rinomati per la loro abilità nella lavorazione dei metalli e per la saggezza. Questi nani erano collegati alla terra e ai tesori nascosti nelle sue profondità. In epoche successive, l’uso del termine iniziò a descrivere creature non solo piccole di statura ma anche sagge, magiche o artigiane. Il termine, quindi, estese il proprio significato a rappresentare esseri sovrannaturali dotati di conoscenze arcane e talenti speciali. Durante il Medioevo, il concetto di "nano" si consolidò nelle letterature e nei racconti folkloristici europei, dove continuò a essere associato a esseri piccoli ma sapienti, spesso con poteri o capacità uniche. Qui il termine "nano" prese a descrivere figure legate alla terra, alla natura e ai metalli preziosi, contribuendo all’immagine che oggi abbiamo di loro come esseri magici o sotterranei. Nell'Italia rinascimentale, la parola "nano" fu usata anche per descrivere figure di corte, ovvero uomini di bassa statura che spesso intrattenevano i nobili. Con il tempo, questi “nani di corte” divennero simbolo di una curiosità e di un’attrazione per l’insolito e il diverso, in parte alimentata dai racconti medievali. Nel XIX secolo, con lo sviluppo delle scienze, il termine "nano" fu adottato anche in contesti medici per indicare persone con condizioni di nanismo, ossia caratterizzate da una statura molto bassa rispetto alla media. Il termine "nanismo" entrò quindi nel vocabolario medico e scientifico come termine neutro per definire una condizione di bassa statura congenita. Nel XX secolo, con l’avvento della tecnologia e della miniaturizzazione, "nano" si è evoluto ancora una volta per riferirsi a tutto ciò che è estremamente piccolo. È così che il termine è stato associato a "nanotecnologia", "nanoparticelle", e così via, per indicare la scala dell'ordine del nanometro (un miliardesimo di metro). In questo contesto, "nano" ha perso del tutto le sue connotazioni antropomorfiche per indicare qualcosa di straordinariamente minuscolo.
COMPLOTTO, etimologia e significato
Il termine complotto ha origine dal latino complicare, che significa letteralmente intrecciare o avvolgere insieme. Questo verbo è formato dal prefisso com- (insieme) e dal verbo plicare (piegare, intrecciare). In senso figurato, indicava l’atto di intrecciare azioni o intenti tra più persone, richiamando l’idea di un legame stretto tra individui che condividono un obiettivo comune. Francese medievale: La parola passò poi dal latino al francese antico come complot, dove cominciò ad acquisire un significato più specifico. Qui, il termine iniziò a riferirsi a una cospirazione segreta tra più individui. Già nel XIII e XIV secolo, complot designava un piano congiunto, spesso con connotazioni di segretezza o inganno. Ingresso nell'italiano: Il termine venne infine adottato in italiano come "complotto". Durante il Rinascimento e il periodo moderno, mantenne l’accezione negativa di “cospirazione segreta” o “accordo illecito”, solitamente volto a danneggiare o a influenzare il corso degli eventi in modo nascosto. In italiano, il significato di complotto si è mantenuto relativamente stabile, indicante sempre un piano segreto orchestrato da più persone per un fine specifico, generalmente dannoso o illecito. Tuttavia, il termine è oggi associato anche a teorie e ipotesi complottiste, in cui la parola è spesso usata per descrivere ipotetici piani nascosti da parte di governi o grandi organizzazioni.
Il complottismo è un fenomeno socio-culturale che si basa sulla convinzione che eventi o situazioni significative siano il risultato di piani segreti orchestrati da gruppi di potere, con l'intento di ottenere benefici personali o di mantenere il controllo su una popolazione o su questioni globali. Chi aderisce a queste idee è spesso definito "complottista".
Il "complottismo" si fonda su alcune caratteristiche fondamentali:
- Sfiducia verso le fonti ufficiali: Una delle componenti principali è la diffidenza verso le istituzioni, i governi e i media. I complottisti tendono a credere che le versioni ufficiali degli eventi siano manipolate o incomplete.
- Elaborazione di teorie alternative: Il complottismo elabora narrazioni alternative che giustificano gli eventi con piani segreti, spesso attribuiti a élite o organizzazioni occulte. Alcune delle teorie più note riguardano eventi storici, disastri, scoperte scientifiche, e persino la diffusione di malattie.
- Ricerca di un "nemico nascosto": Il complottismo spesso identifica un "nemico" invisibile o un gruppo di potere che agisce nell'ombra. Questi gruppi possono essere multinazionali, lobby, gruppi religiosi, governi, o associazioni segrete.
- Narrativa semplificata: Le teorie del complotto offrono spiegazioni lineari e spesso sensazionalistiche per eventi complessi. Questo porta alla creazione di schemi semplici per interpretare situazioni intricate, riducendole a "buoni contro cattivi".
- Prove "alternative" e diffusione sui media non ufficiali: Il complottismo si avvale di fonti non convenzionali, spesso non verificabili o scarsamente documentate, e trova terreno fertile sui social media e su siti web dedicati, che diffondono queste teorie a un vasto pubblico.
SPIA, etimologia e significato
La parola italiana spia ha origini radicate in alcuni passaggi attraverso lingue germaniche e neolatine. Il punto di partenza sembra essere il termine proto-germanico spehōn, che significa "guardare attentamente", "scrutare" o "esaminare con cura". Questa radice è alla base di vari termini nelle lingue germaniche antiche, come l’antico alto tedesco spëhōn e l’antico inglese spēon, che convergono nel verbo inglese moderno to spy (spiare, scrutare), attraverso il medio inglese espien. Dal germanico, la radice arriva nel latino medievale e nel francese antico. In francese, già dal XIII secolo, si attesta il termine espier, che indica l’atto di osservare segretamente o di sorvegliare a distanza, unito alla figura di un individuo che svolge tale azione. Questo termine francese antico è probabilmente il tramite principale attraverso cui il termine giunge nella penisola italiana. Con il consolidarsi degli scambi culturali e politici tra Francia e Italia nel Medioevo, il francese antico espie e il verbo espier diventano modelli lessicali adottati nelle parlate romanze italiane. In italiano antico si attesta così espiare (successivamente "spiare") e espia, che subisce poi un processo di semplificazione fonetica, diventando "spia". Il prestito linguistico dal francese non fu un fenomeno isolato, ma parte di un più vasto influsso culturale che caratterizzò i rapporti tra l’Italia e la Francia durante il Medioevo, particolarmente nei contesti militari e di corte, dove lo spionaggio, inteso come osservazione strategica, era una pratica diffusa. Con l’avvento del Rinascimento e della diffusione dei trattati militari e politici, il termine "spia" assume connotazioni sempre più specifiche. Nel Quattrocento e Cinquecento, spia designa già un individuo incaricato di sorvegliare movimenti, raccogliere informazioni sensibili e riferire a un superiore: un’attività rivolta all’interesse della corte o dello Stato, dunque dotata di un preciso significato strategico. Dal XVII secolo, con lo sviluppo degli stati moderni e delle prime organizzazioni di intelligence, la "spia" si carica di un valore spesso ambiguo, poiché l’attività spionistica è volta a ottenere segreti o vantaggi su altri stati o potenze. È interessante osservare che in questo periodo nasce anche la figura letteraria della spia, spesso dipinta come un individuo senza scrupoli, abile nell’infiltrarsi e passare inosservato. Col tempo, la parola "spia" inizia a designare non solo persone, ma anche dispositivi o segnali di sorveglianza. Già nel XIX secolo si usa "spia" per indicare un indicatore di stato o allarme: ad esempio, nelle prime locomotive a vapore, alcune luci o strumenti di controllo erano chiamati "spie" per segnalare variazioni di temperatura o di pressione. Questa estensione semantica si amplifica nel XX secolo, con l’avvento dell’elettronica e dei dispositivi meccanici: oggi il termine "spia" indica comunemente piccole luci o indicatori (come le luci di segnalazione sul cruscotto di un'automobile o le "spie" sugli elettrodomestici) che avvisano di un determinato stato operativo o di un’anomalia. In ambito figurato, "spia" è utilizzata come metafora per segnalare un indizio o un sintomo che può svelare uno stato d’animo o una situazione latente. Per esempio, si può dire: “il suo comportamento è una spia del suo malessere”, per suggerire che l’azione di una persona lascia trapelare un’emozione o una condizione che preferirebbe nascondere.
URLO, etimologia e significato
Secondo la maggior parte dei dizionari etimologici italiani, "urlo" deriva da una radice latina tardo-volgare, probabilmente un derivato popolare del latino classico ululare (urlare, emettere un grido acuto). In latino, ululare era un verbo che si riferiva al lamento o al grido tipico di animali selvatici, come lupi e uccelli notturni. Questa parola imitativa cerca di riprodurre il suono straziante e prolungato del verso di un animale, soprattutto nei momenti di pericolo o di richiamo. Non a caso, il verbo ululare viene spesso associato al "richiamo del lupo" ed è rimasto presente nel linguaggio poetico e colloquiale, anche in contesti che vogliono descrivere un pianto disperato o angosciato. Col passare del tempo, il termine ululatus si è evoluto nella lingua volgare fino a generare l'italiano urlo, probabilmente per effetto di una semplificazione fonetica e morfologica, comune in molte trasformazioni linguistiche durante il passaggio dal latino all'italiano. In italiano, "urlo" si riferisce principalmente a un grido forte e prolungato, generalmente espressione di emozioni intense come paura, dolore, rabbia o entusiasmo. Tuttavia, il termine è anche usato in senso figurato per descrivere manifestazioni di ribellione, disagio, o richiesta d'aiuto. Non è un caso che si parli di "urlo di disperazione", "urlo di gioia", o "urlo di dolore", ciascuna espressione indicando uno specifico contesto emozionale. Il valore simbolico dell'urlo è ampiamente sfruttato nella cultura e nell'arte. L'idea dell'urlo come liberazione catartica ha radici antiche, sia nella letteratura che nella pittura. Basti pensare a opere iconiche come L’urlo di Edvard Munch, che rappresenta la sofferenza e l’angoscia umana in una forma grafica e potente, o al celebre "grido" di Ginsberg nella letteratura americana. In entrambi i casi, l’urlo è un’espressione sonora di un disagio interiore profondo, un simbolo di ribellione e di estraneità al mondo esterno. L'urlo può apparire in contesti narrativi e poetici, dove funge da metafora della tensione umana, della protesta o della paura. In letteratura, lo ritroviamo spesso in descrizioni di scene drammatiche o cariche di emozione. Un esempio classico è nella Divina Commedia di Dante, dove i "lamenti" e gli "urli" infernali evocano la sofferenza eterna dei dannati.
Interessante soffermarci sull'uso del plurale che troviamo sia in forma maschile, sia in forma femminile:
Urli - Preferito per grida umane distinte o legate a emozioni specifiche e identificate (rabbia, dolore, gioia)
Urla - Usato per rumori collettivi o indistinti, situazioni caotiche o grida provenienti dalla folla o dalla natura, dove le voci singole si confondono in un'unica massa sonora.
ACCADEMIA, etimologia e significato
- Istituzione educativa superiore: In questo contesto, accademia si riferisce a una scuola o a un’università che fornisce un’istruzione avanzata in un determinato campo. Le accademie di belle arti, ad esempio, sono istituti specializzati nella formazione artistica, mentre le accademie militari offrono una formazione tecnica e pratica per coloro che intraprendono una carriera nelle forze armate.
- Associazione culturale o artistica: In Italia, esistono molte accademie culturali che promuovono le arti, le lettere e le scienze. Queste accademie sono spesso composte da studiosi, artisti e scrittori che si riuniscono per discutere, studiare e promuovere il sapere nelle rispettive discipline. L'Accademia della Crusca, ad esempio, è l'istituzione italiana incaricata di custodire la lingua italiana, curandone la normativa e la lessicografia.
- Luogo di studio o di approfondimento: La parola accademia viene talvolta utilizzata per indicare un luogo di studio specializzato, come un'accademia di danza, di musica o di teatro. In questi contesti, l'accademia è concepita come un luogo dove i partecipanti ricevono una formazione specifica e intensa in una determinata arte o abilità.
- Atteggiamento “accademico” o eccessivamente formale: Nella lingua italiana, l'aggettivo accademico può assumere anche una connotazione critica. Definire qualcosa come accademico può implicare una certa rigidità o formalismo, oppure una distanza dalla realtà pratica. Questo uso riflette una visione dell'accademia come ambiente a volte chiuso in sé stesso e troppo concentrato sulle teorie a discapito della pratica.
- Fare accademia: Questa espressione significa dedicarsi a discussioni teoriche, spesso inutili o poco pratiche. Ha una connotazione critica, suggerendo una perdita di tempo in discussioni troppo astratte.
- Accademico (usato come aggettivo): Può significare sia "relativo all'accademia" sia "teorico" o "privo di applicazioni pratiche". Ad esempio, una questione accademica può essere una questione priva di rilevanza pratica, solo teorica.
- Vita accademica: Si riferisce alla carriera e alle attività svolte all'interno di un’istituzione di ricerca e insegnamento, come un’università o un’accademia.
UMORE, etimologia e significato
La parola umore ha origini che risalgono alla medicina antica, passando attraverso la filosofia e influenzando anche la psicologia moderna. Deriva dal latino humor, che significa "liquido, umidità". Nell'antica Roma, il termine latino humor era utilizzato principalmente per indicare un fluido o una sostanza liquida, con riferimenti espliciti all'umidità e all'acqua. In epoca medievale, con la diffusione della teoria umorale di Ippocrate e Galeno, il termine humor ha assunto una connotazione scientifica legata alla medicina. Secondo la teoria dei quattro umori, la salute e il benessere del corpo umano dipendevano dall'equilibrio di quattro liquidi fondamentali: sangue, flemma, bile gialla e bile nera. Ciascuno di questi umori era collegato a specifici stati emotivi e tratti caratteriali. La parola umore, quindi, è nata in un contesto scientifico come termine tecnico, ma ha finito per essere impiegata con significati più ampi e metaforici, sopravvivendo a cambiamenti e evoluzioni culturali. Nella medicina medievale e rinascimentale, umore indicava dunque i fluidi corporei che si pensava regolassero lo stato fisico e mentale di una persona. La teoria umorale è rimasta popolare fino al XVII secolo, influenzando pesantemente il linguaggio medico e filosofico del tempo. I medici di allora credevano che uno squilibrio tra i quattro umori fosse causa di malattie fisiche e mentali e che l’equilibrio tra questi liquidi potesse essere ristabilito tramite tecniche come il salasso. La parola umore iniziò gradualmente ad allontanarsi dal suo significato originario di fluido corporeo, evolvendosi per includere concetti più astratti legati allo stato d'animo e all’emotività. Con il tempo, l’uso della parola si è distaccato completamente dal suo contesto medico-scientifico, restando però ancorato a una nozione di equilibrio o squilibrio che influisce sul benessere e sulla percezione. A partire dal XVIII e XIX secolo, con l'evoluzione delle scienze mediche e psicologiche, umore ha iniziato a essere associato allo stato psicologico di una persona, abbandonando definitivamente l'idea dei liquidi corporei.
Oggi, in italiano, la parola umore ha prevalentemente due significati principali:
- Stato d'animo o disposizione emotiva: in questo contesto, umore si riferisce alla condizione psicologica e affettiva di una persona, che può essere positiva (buon umore) o negativa (cattivo umore). Ad esempio, dire che una persona è "di cattivo umore" significa che è triste, irritabile o contrariata, mentre "di buon umore" indica una disposizione felice o rilassata. L'uso in questa accezione è molto diffuso e si riferisce alla temporaneità delle emozioni e delle reazioni a eventi esterni.
- Tendenza all'ironia o al comico: l'uso di umore è spesso associato anche a un particolare tipo di ironia o comicità sottile. Questa accezione si ritrova in espressioni come umorismo e umoristico, che fanno riferimento a una forma di divertimento intellettuale. La comicità legata all’umore, come tratto di personalità o di espressione artistica, suggerisce una certa predisposizione a trovare il lato umoristico delle situazioni, anche quelle apparentemente serie.
Nella lingua italiana, umore è presente in una serie di espressioni idiomatiche che ampliano ulteriormente la sua sfumatura semantica, spesso facendo riferimento all’umore come stato emotivo instabile o mutevole:
- Essere di buon/cattivo umore: espressione comune per indicare uno stato d’animo positivo o negativo.
- Cambiare umore: espressione che evidenzia l’instabilità e la mutevolezza degli stati emotivi.
- Essere di umore nero: Essere molto tristi o malinconici. Questo uso del termine umore evoca immagini di oscurità e pesantezza, probabilmente legate all’antica associazione della bile nera con la malinconia.
- Avere l'umore altalenante: indica uno stato d'animo che varia rapidamente, senza una ragione apparente.
Il termine umorismo, derivato da umore, rappresenta un importante sviluppo semantico che si è consolidato nel XIX secolo, parallelamente alla crescita delle pubblicazioni satiriche e alla valorizzazione della comicità come forma di intrattenimento e di critica sociale. Il senso dell'umorismo è considerato oggi una qualità apprezzata e persino terapeutica. La capacità di osservare il lato comico della vita e di reagire alle difficoltà con ironia è vista come un aspetto positivo della personalità, che facilita la resilienza e migliora la qualità della vita.
ANANCASTICO, etimologia e significato
Il termine anancastico proviene dal greco antico ἀνάγκη (anánkē), che significa necessità o costrizione. Il suffisso -ico è tipico della formazione di aggettivi in lingua italiana, e deriva dal greco "-ικός, che a sua volta era utilizzato per formare aggettivi che indicavano appartenenza o relazione. Il termine greco "ἀνάγκη" ha radici molto antiche nel linguaggio e nella cultura greca. Era associato a concetti di fato o forza ineluttabile, connessa alla costrizione naturale o divina cui gli uomini non potevano sottrarsi. Nella mitologia greca, Ananke era la personificazione della necessità e del destino inevitabile. In ambito psicologico e psichiatrico, il termine anancastico è usato per indicare un tipo di personalità o comportamento caratterizzato da un forte senso di obbligo, ossessione o compulsione a compiere determinate azioni, anche contro la propria volontà. Viene spesso utilizzato nel contesto dei disturbi ossessivo-compulsivi (OCD), dove i pazienti sperimentano un irresistibile impulso a compiere certi atti o pensare determinati pensieri per alleviare l'ansia. In psicopatologia, una personalità anancastica è tipicamente descritta come ossessiva, perfezionista, estremamente attenta ai dettagli e alle regole, e incapace di gestire situazioni in cui sente di non avere il controllo. Nel linguaggio comune, il termine non è di uso frequente, ma in ambito clinico e specialistico si trova spesso per descrivere sintomi ossessivi-compulsivi. Ad esempio, il disturbo di personalità anancastico è una condizione riconosciuta nei manuali diagnostici di psichiatria, come il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). L'uso del termine in ambito psichiatrico è anche collegato a una comprensione più ampia del concetto di compulsione, connesso alla necessità di alleviare l'ansia.