La parola italiana tortura discende dal termine latino tortūra, derivato a sua volta dal verbo torquēre, che significa "torcere" o "attorcigliare". In latino, torquēre era un verbo polisemico, usato per descrivere una gamma di azioni che includevano il torcere, il ruotare o il piegare. La trasformazione semantica da un significato puramente fisico a uno concettuale, relativo alla sofferenza, è particolarmente evidente nella parola tortūra, che inizialmente indicava un atto di "torsione" fisica, ma presto assunse un significato più specifico e tecnico: l'atto di infliggere dolore attraverso la manipolazione violenta del corpo.
Il verbo torquēre fu adottato nelle lingue romanze e la sua derivazione si diffuse in tutto l'Impero Romano, rimanendo presente nelle radici dei termini equivalenti nelle lingue moderne: torture in francese, tortura in spagnolo, portoghese e italiano, e torture in inglese, che lo acquisì attraverso il francese antico. Questa diffusione uniforme del termine nelle lingue romanze testimonia l'importanza della pratica nell'antichità romana e medievale e il consolidamento di una parola che non solo descriveva una specifica azione fisica ma anche un mezzo per ottenere "verità" e confessioni, soprattutto nei procedimenti giudiziari.
Le radici storiche della tortura risalgono alle civiltà mesopotamiche e all'antico Egitto, dove già si trovano testimonianze di pratiche che infliggevano dolore fisico come punizione. Nell’antico codice di Hammurabi (circa 1754 a.C.), uno dei più antichi codici giuridici conosciuti, si descrivono punizioni fisiche per reati come il furto e l’omicidio, sebbene non vi sia una menzione esplicita della tortura come pratica formale. Le pratiche punitive mesopotamiche e successivamente quelle egiziane erano più orientate a stabilire un ordine sociale e a fungere da deterrente che non a estorcere confessioni.
In Grecia e Roma, invece, la tortura divenne un elemento consolidato dei procedimenti legali, con un'importante distinzione sociale: era riservata agli schiavi o ai nemici dello stato, poiché si riteneva che questi gruppi non avessero il diritto alla difesa come i cittadini liberi. Nel diritto romano, la quaestio per tormenta, ovvero l’interrogatorio attraverso mezzi di tortura, era una procedura legale ufficiale, utilizzata per ottenere informazioni cruciali per la sicurezza dello stato o per smascherare crimini complessi. I giuristi romani come Cicerone e Ulpiano discussero della tortura non solo come pratica, ma anche come dilemma etico e giuridico, considerandola uno strumento efficace ma moralmente ambiguo per la ricerca della verità.
Il Medioevo vide un’evoluzione e una formalizzazione della tortura come strumento giudiziario in Europa. Con l’ascesa della Chiesa cattolica e l'intensificarsi delle campagne contro l'eresia, la tortura venne istituzionalizzata nei procedimenti inquisitori. Il Malleus Maleficarum, manuale degli inquisitori pubblicato nel 1487, descriveva in dettaglio le modalità per ottenere confessioni, inclusi i metodi di tortura permessi e le condizioni in cui si poteva applicare.
Questo periodo storico consolidò la percezione della tortura non solo come mezzo per ottenere informazioni ma anche come strumento punitivo, capace di purificare l’anima del colpevole. Era ampiamente accettato che la sofferenza fisica potesse rappresentare un'espiazione dei peccati o delle colpe contro Dio e la comunità. Gli inquisitori, spesso membri dell'ordine domenicano, ritenevano che la tortura fosse giustificata moralmente e legalmente nel contesto delle indagini contro l’eresia e la stregoneria. La tortura medievale raggiunse la sua massima intensità durante la fase delle Crociate e con la successiva diffusione dei tribunali dell’Inquisizione spagnola, dove metodi come lo strappado (sollevamento con le braccia legate dietro la schiena) e la garrucha (applicazione di pesi alle gambe) venivano usati con frequenza. Questi metodi non miravano solo a ottenere una confessione, ma anche a infliggere sofferenze che avrebbero dovuto purificare il corpo e l’anima del supposto colpevole.
Con l'avvento dell'Illuminismo, nel XVIII secolo, il concetto di tortura iniziò a essere messo in discussione dagli intellettuali e dai filosofi. Personaggi come Cesare Beccaria, nel suo celebre trattato Dei delitti e delle pene (1764), criticarono aspramente l’uso della tortura, ritenendola inefficace per ottenere confessioni veritiere e contraria ai principi di umanità e giustizia. Beccaria sottolineava come la tortura inducesse i prigionieri a confessare crimini che non avevano commesso, pur di far cessare il dolore. Questo cambiamento di prospettiva rifletteva una crescente sensibilità verso i diritti umani e la dignità dell'individuo. Influenzati da queste idee illuministe, molti stati europei abolirono gradualmente la tortura. La Prussia fu uno dei primi stati a proibirla nel 1740, seguita dall'Austria sotto Maria Teresa e dal Granducato di Toscana nel 1786. Queste riforme segnano una svolta epocale nella storia del diritto: la tortura, da pratica legittima e codificata, diventa un atto illecito e immorale, simbolo della barbarie medievale e contrario alla nuova etica illuminista.
Con la nascita del diritto internazionale moderno, il termine tortura venne definito formalmente e condannato come violazione dei diritti umani fondamentali. Dopo le atrocità della Seconda Guerra Mondiale e il processo di Norimberga, la tortura venne riconosciuta come crimine contro l'umanità. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948 affermava il principio secondo cui "nessuno sarà sottoposto a tortura né a trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti".
La Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura, adottata nel 1984, rappresenta uno dei più importanti strumenti normativi per l’abolizione della tortura nel mondo. Essa definisce in modo rigoroso la tortura come "ogni atto mediante il quale vengono intenzionalmente inflitti a una persona dolori o sofferenze gravi, fisiche o mentali, al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso".
Nella lingua italiana contemporanea, il termine tortura è divenuto sinonimo di sofferenza estrema, sia fisica che psicologica. Si parla di "tortura psicologica" per riferirsi a situazioni di abuso emotivo o coercizione mentale, estendendo il concetto dal mero dolore fisico a una sofferenza più sottile e intangibile. In ambito letterario e figurativo, tortura viene utilizzato anche per esprimere uno stato di angoscia o tormento interiore. La Divina Commedia di Dante Alighieri, ad esempio, descrive in modo dettagliato la sofferenza eterna dei dannati, introducendo il concetto di tortura come pena eterna per i peccati commessi. In epoca moderna, autori come Primo Levi utilizzarono il termine tortura per descrivere la realtà dei campi di concentramento nazisti, rendendo il termine un simbolo del dolore inflitto in nome di ideologie disumane. Leonardo Sciascia diceva: «Non c'è Paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura, ma di fatto sono pochi quelli in cui polizie, sotto polizie e criptopolizie non la pratichino. Nei Paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio».
Tortura di un leader protestante durante le guerre di religione in Francia - Università di Ginevra
Nessun commento:
Posta un commento