Il termine troppo deriva dal latino volgare troppus, che a sua volta si collega alla radice germanica thorp- o throp- (villaggio, aggregato, gruppo). Il passaggio semantico dal significato originale a quello attuale è complesso, ma si suppone che in epoca medievale troppus sia stato reinterpretato nel senso di "quantità abbondante" o "massa eccessiva", applicato dapprima a gruppi numerosi e, successivamente, a quantità generiche.
La radice germanica throp- era associata all’idea di accumulo o concentrazione. Sebbene il significato primario fosse "villaggio" (come nel toponimo inglese Thorp), nelle lingue romanze medievali il termine assunse una connotazione di abbondanza o esagerazione. Questa trasformazione semantica è tipica delle contaminazioni linguistiche avvenute durante le migrazioni barbariche.
Nel latino classico non esisteva un termine corrispondente a troppo. Tuttavia, nell’evoluzione del latino volgare, la parola iniziò a comparire in testi come sinonimo di "quantità eccessiva", soprattutto in relazione al cibo o al denaro. È probabile che troppus sia stato un termine colloquiale, usato dalle classi popolari e successivamente integrato nei volgari italiani.
La parola troppo entra nella lingua italiana durante il Medioevo, emergendo nei volgari regionali a partire dall'XI-XII secolo. La sua diffusione è strettamente legata alla letteratura e ai testi normativi.
Nei testi volgari medievali, come quelli della Scuola Siciliana o nelle opere di autori toscani del Duecento, troppo compare spesso con il significato di "molto" o "eccessivamente". Per esempio, nella poesia di Jacopo da Lentini troviamo:
"Non amar troppo forte, ché l’amore / si rompe quando è troppo a dismisura." Questo uso precoce mostra già la dualità semantica: troppo indica sia quantità elevata sia un giudizio negativo (l’eccesso).
Nel Trecento, con Dante e Petrarca, l’uso di troppo si fa più raffinato e variegato. In Dante, ad esempio, si riscontra una forte connotazione morale:
"Troppo si stende la legge del perdono..." (Paradiso, canto XI). Qui, troppo non è solo quantitativo ma assume un valore critico verso ciò che eccede i limiti dell’accettabile.
Nel Rinascimento, grazie alla standardizzazione del toscano come lingua letteraria, troppo diventa di uso comune, perdendo progressivamente alcune sfumature medievali. In autori come Machiavelli e Ariosto, il termine è frequentemente usato per enfatizzare o sottolineare un’esagerazione, senza necessariamente implicare un giudizio negativo.
Nel linguaggio moderno, troppo mantiene la sua funzione di avverbio e aggettivo con significati legati all’eccesso o all’abbondanza.
Troppo
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