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CORTIGIANO, etimologia e significato

Per capire davvero da dove viene "cortigiano", dobbiamo fare un salto indietro nel tempo fino a circa 4000-5000 anni fa, quando i nostri antenati indoeuropei – popoli che ancora non conoscevano la scrittura – usavano una lingua che oggi chiamiamo protoindoeuropeo (o PIE, dalla sigla inglese). Questa lingua ancestrale è la madre comune di tantissime lingue moderne: dall'italiano al greco, dal sanscrito all'inglese, dal russo al persiano.​ In questa lingua antica esisteva una radice, ʰer- , che esprimeva un'idea molto concreta e pratica: "afferrare, racchiudere, cingere". Questa radice esprimeva proprio quell'azione fondamentale del "mettere un confine", del "circondare uno spazio per proteggerlo".​C'era anche una variante leggermente diversa, ǵʰerdʰ- , che metteva ancora più enfasi sull'idea di "recinto" e "cinta protettiva". Quando i popoli indoeuropei migrarono verso est, portando con sé la loro lingua e la loro cultura, questa antica radice si trasformò. In sanscrito – la lingua sacra dell'India antica, quella dei Veda (i testi religiosi più antichi dell'umanità, risalenti a circa 3500 anni fa) – nacque la parola गृह, pronunciata "gṛhá".​ Gṛhá significa semplicemente "casa, dimora", ma mantiene intatto quel senso originario di "spazio protetto e recintato". Nei testi vedici, questa parola non indica solo l'edificio fisico, ma l'intera idea di "focolare domestico". Nel mondo greco antico, la stessa radice prese una strada leggermente diversa. I Greci svilupparono la parola χόρτος (khórtos), che significava "pascolo, recinto per animali". Ancora una volta, il significato fondamentale rimane: uno spazio delimitato, circoscritto, protetto. In Grecia, dove l'allevamento delle greggi era fondamentale, la parola si specializzò per indicare proprio quei terreni recintati dove pascolavano gli animali.​ Successivamente, il latino sviluppò due parole dalla stessa radice ancestrale: hortus e cohors.​ quast'ultima è  composta:dal prefisso co-(una forma di com-, "insieme, con") si unisce alla radice -hors (affine a hortus). Il significato originale era quindi "spazio recintato insieme", "recinto collettivo".​ Inizialmente, cohors indicava il cortile della fattoria romana, l'aia, quello spiazzo recintato davanti alla villa dove si svolgevano le attività quotidiane. Ma i Romani, estesero il significato: se cohors era lo spazio dove si radunavano persone e animali, allora poteva indicare anche il "gruppo di persone" che occupava quello spazio.​ Cohors divenne il termine tecnico per indicare la "coorte militare" (la decima parte di una legione romana, circa 500 uomini) e anche la "guardia del corpo del comandante", il suo seguito personale. Vi fu il passaggio semantico: da "cortile" a "gruppo di persone nel cortile" a "guardia personale" a "seguito di persone importanti". È proprio questo slittamento di significato che porterà, secoli dopo, al nostro "cortigiano".​ Nel latino medievale cohors divenne cors-cortis, forma più facile da pronunciare. Da qui, in italiano, nacque la parola corte.​ All'inizio, corte mantenne il significato originario di "cortile", lo spazio aperto e recintato di una residenza. Ma gradualmente, attraverso un processo che gli linguisti chiamano "metonimia" (quando una parola assume il significato di qualcosa di strettamente collegato), corte passò a indicare:​

Il cortile → l'intera residenza signorile

La residenza → le persone che vi abitano

Le persone → l'ambiente nobiliare che circonda il signore o il re

L'ambiente → l'istituzione stessa del potere sovrano​

Nel Medioevo e soprattutto nel Rinascimento, la "corte" divenne il centro della vita politica, culturale e sociale ove si prendevano le decisioni politiche, si celebravano matrimoni dinastici, si producevano opere d'arte, si componeva musica, si discuteva di filosofia. La corte era uno spazio esclusivo, raffinato, entro il quale nobili, intellettuali, artisti e militari convivevano in un sistema gerarchico complesso ma affascinante.​ Nel XIV secolo, quando l'italiano stava definitivamente prendendo forma come lingua letteraria, qualcuno ebbe bisogno di una parola per indicare "chi appartiene alla corte", "chi vive nell'ambiente della corte".​ Giovanni Boccaccio, nel suo capolavoro del Trecento, il Decameron, usava già cortigiano per indicare semplicemente "chi vive a corte" o "l'addetto alla corte con un grado onorifico".​ Ma è con Baldassarre Castiglione, nel 1528, che il termine raggiunge la sua massima espressione. Castiglione scrisse un'opera destinata a diventare un bestseller europeo: Il Libro del Cortegiano . In questo dialogo ambientato nella raffinata corte di Urbino, Castiglione dipinge il ritratto del perfetto uomo di corte.​ Il cortigiano ideale di Castiglione non è un semplice adulatore o un servitore passivo. È un uomo completo, universale: deve essere valoroso nelle armi ma anche colto nelle lettere; deve saper ballare, suonare strumenti musicali, conversare brillantemente; deve essere elegante senza affettazione, coraggioso senza ostentazione. Il cortigiano, secondo Castiglione, ha anche un ruolo politico importante: deve essere il consigliere fidato del principe, guidandolo verso decisioni giuste, equilibrate, orientate al bene comune. È un ideale che mescola la tradizione cavalleresca medievale con la cultura umanistica rinascimentale.​ Il successo del libro fu straordinario: venne tradotto in tutte le lingue europee e divenne il manuale di riferimento per chiunque volesse imparare come comportarsi in società. La parola cortigiano acquisì quindi una ricchezza di significati: non era più solo "chi sta a corte", ma rappresentava un intero modello culturale, un ideale di raffinatezza, educazione e virtù.​ Accanto al maschile cortigiano, si formò regolarmente il femminile cortigiana (antico cortegiana). All'inizio, anche questo termine aveva un significato positivo e neutro: "donna di corte", signora che partecipava alla vita della corte. Lo stesso Castiglione, nel suo libro, dedica ampio spazio a descrivere le virtù della perfetta "donna di palazzo" (lui evitava il termine cortigiana proprio perché già allora stava assumendo connotazioni problematiche).​ Purtroppo, già nel XVI secolo, cortigiana cominciò a subito uno slittamento semantico negativo. Il motivo è legato alle ambiguità e alle relazioni amorose che spesso si sviluppavano nelle corti rinascimentali: i matrimoni nobiliari erano combinati per ragioni politiche, e non era raro che principi e nobili cercassero affetto e compagnia altrove. Alcune donne di corte divennero famose come amanti dei signori, e il termine cortigiana doveva a indicare proprio questo ruolo.​ Da "amante del signore", il significato scivolò ulteriormente verso "donna di costumi liberi" e infine "prostituta d'alto rango". A Venezia, per esempio, nel Cinquecento esistevano le famose "cortigiane oneste" (colte, raffinate, spesso poetesse e musiciste) e le "cortigiane di lume" (prostitute comuni). Col tempo, l'accezione negativa ha completamente soppiantato quella originaria, tanto che oggi cortigiana è , in genere, considerato un termine offensivo.​

Fonti principali consultate : 

Vocabolario Treccani, 

Wikizionario (sezioni latino, greco, sanscrito, protoindoeuropeo), 

Dizionario di etimologia online, 

studi accademici sulla linguistica comparativa indoeuropea e sulla cultura rinascimentale.​

Cortigiani

ABBINDOLARE, etimologia e significato

La parola abbindolare: chi non l'ha mai sentita? "Non farti abbindolare da quel venditore!", diciamo, oppure "Si è lasciato abbindolare dalle sue promesse". Ma pochi sanno che dietro questo verbo apparentemente semplice si cela un viaggio incredibile attraverso millenni di storia umana, che ci porta dalle antiche tribù protoindoeuropee fino agli artigiani italiani del Medioevo. La storia inizia con un oggetto umilissimo: il bindolo, cioè l'arcolaio, quello strumento che le nostre nonne usavano per avvolgere ordinatamente il filo in gomitoli. Chi ha mai visto lavorare al telaio sa bene com'è fatto: una struttura di legno con delle stecche su cui il filo viene riavvolto, girando e rigirando, in movimenti ipnotici e continui. Ed è proprio qui che nasce la magia linguistica. I nostri antenati, osservando questo movimento circolare, continuo e un po' ossessivo del filo che si avvolge su se stesso, ci hanno visto qualcosa di familiare: il modo in cui una persona astuta "avvolge" la sua vittima con parole seducenti, facendola girare in tondo fino a confonderla completamente.

Ma da dove arriva la parola bindolo? Tutto inizia circa 6000 anni fa, quando i nostri lontanissimi antenati protoindoeuropei - quelli che parlavano la lingua madre da cui sono nate tutte le lingue europee e molte asiatiche - usavano una radice chiamata **wendh-** che significava "girare, avvolgere, torcere". La radice **wendh-** non rimase ferma. I popoli germanici la ereditarono, facendola diventare **windaną**, che voleva dire "avvolgere, girare". Da questa parola germanica  nacquero tanti termini che usiamo ancora oggi: l'inglese "wind" (avvolgere), il tedesco "winden" (torcere), e soprattutto l'alto tedesco antico "winde", che indicava proprio un argano, una macchina per sollevare pesi.

Durante le grandi migrazioni del primo millennio dopo Cristo, i popoli germanici entrarono in contatto stretto con il mondo romano. Longobardi, Goti, Franchi non portarono solo le loro armi e le loro leggi, ma anche le loro parole. Il termine germanico "winde" (argano, macchina per sollevare) si adattò alla lingua italiana diventando prima "binda" - che ancora oggi in alcune regioni del Nord significa "martinetto" - e poi "bindolo". Il passaggio dalla "w" germanica alla "b" italiana è un fenomeno normalissimo: è lo stesso che troviamo in "guerra" (dal germanico "werra") o in "guardia" (dal germanico "wardja"). Una volta in Italia, la parola cambiò significato. Se in origine "winde" indicava genericamente un argano per sollevare pesi, in italiano "bindolo" indicò specificamente l'arcolaio, quello strumento che serviva per avvolgere i fili. Da ciò, il significato metaforico: così come il filo viene "abbindolato" sull'arcolaio - avvolto, riavvolto, fatto girare in tondo fino a perdere il capo e la coda - allo stesso modo una persona astuta può "abbindolare" la sua vittima con parole seducenti, facendole perdere il senso dell'orientamento. I dizionari più autorevoli - dal Grande Dizionario della Lingua Italiana dell'Accademia della Crusca al Dizionario Etimologico di Cortelazzo e Zolli - confermano tutti questa ricostruzione. Non ci sono altre teorie  plausibili: quando usiamo abbindolare, stiamo inconsapevolmente celebrando la genialità linguistica dei nostri predecessori, che sono riusciti a cogliere l'analogia perfetta tra il movimento ipnotico del bindolo e il meccanismo psicologico dell'inganno.

Abbindolare

CIOFECA, etimologia e significato

Nei dizionari moderni italiani ciofeca è registrata come voce di area romanza/meridionale con prima attestazione bibliografica relativamente recente (catalogata in alcuni repertori intorno al 1900–1905). Il significato più antico riportato è «bevanda di sapore cattivo» (soprattutto surrogati del caffè: orzo, ghiande, fave, ecc.), poi esteso a «oggetto o cosa di qualità scadente»

L'ipotesi etimologica più accreditata, riportata da importanti repertori italiani come Treccani, individua l'origine della parola ciofeca nel castigliano/valenziano "chufa" (tubero usato per fare la horchata), passata attraverso i dialetti meridionali come nome di bevanda, poi evoluta fonologicamente e semanticamente in ‘bevanda di scarsa qualità / surrogato’. La voce spagnola chufa è attestata in spagnolo e catalano, e i lessicografi la collegano ad antichi termini latini/greci (p.es. cyphi, dal latino/greco) e al lungo uso della pianta nell’area mediterranea; la chufa è storicamente associata a una bevanda popolare (horchata) introdotta nella penisola iberica in periodo medievale grazie al contatto arabo-islamico in Spagna.

Altri autori e divulgatori sostengono che ciofeca provenga da un termine arabo (segnalati varianti šafaq, safek, o forme dialettali) che indicherebbe una bevanda debole o poco energetica; questa ipotesi è collegata alla presenza della lingua araba nel Sud Italia medievale, ma non trova rilevanti riscontri lessicografici.

Poiché la seconda parte della parola "-feca" richiama foneticamente feccia (dal latino faex, «deposito, feccia»), è stata proposta una lettura composita: ciu(-/cho)- (da chufa/ciufa) + -feca (da faex/feccia) cioè «bevanda di scarto a base di chufa», ossia ciofeca come «infima parte» della bevanda. Questa ipotesi è più ricostruttiva e meno attestata lessicograficamente, ma spiega la forma grafica e la connotazione negativa («schifezza, feccia»).

Alla luce delle fonti disponibili (dizionari etimologici iberici, repertori italiani, studi etnobotanici divulgativi) la spiegazione chufa = ciofeca è la più plausibile e la più documentata in bibliografia corrente, mentre altre ipotesi restano possibili ma meno plausibili e sostenute.


Bibliografia:

  • Treccani, Vocabolario — voce ciofèca.  Treccani
  • De Mauro, Dizionario (voce ciofeca, nota attestativa). Internazionale
  • RAE / Diccionario de la lengua española — voce chufa.  dle.rae.es
  • Wiktionary / voce chufa (etimologia sintetica: lat. cyphi ← gr. κῦφι ← egiz.). Wiktionary
  • Articoli etnobotanici e divulgativi su ciofeca (es. rapporti su infusi di ghiande e ricerche di Carmine Lupia). 
  • EtymOnline / voce faeces/faex (per lat. faex → it. feccia). Dizionario Etimologico Online
Ciofeca

CODICE, etimologia e significato

Quando oggi diciamo codice, pensiamo subito a un libro di leggi, a un codice penale o civile, o magari al codice sorgente di un programma informatico. Ma le radici di questa parola affondano in un terreno molto più semplice e concreto: il legno. In latino esisteva il termine caudex (poi scritto anche codex), che significava tronco d’albero, ceppo. Da quel tronco, tagliandolo a fette sottili, si ricavavano tavolette di legno rivestite di cera: su quelle tavolette gli antichi Romani scrivevano con uno stilo. Erano i loro “quaderni” primitivi. È così che caudex passò a significare tavoletta per scrivere, e poi, con un salto naturale, libro. Con il tempo, le tavolette legate insieme furono sostituite da fogli piegati e cuciti, dando vita al formato librario che chiamiamo ancora oggi codex (in inglese si dice proprio codex, quando si parla dei grandi manoscritti antichi). Il codice era molto più pratico del rotolo (volumen), perché permetteva di sfogliare le pagine, tornare indietro, fare indici. Per questo, tra il III e il IV secolo, il codice soppiantò il rotolo e diventò il formato librario per eccellenza. Quando l’Impero Romano cominciò a raccogliere in un unico libro le leggi emanate dagli imperatori, quel libro prese il nome di Codex. Nel 438 venne pubblicato il Codex Theodosianus, la prima grande raccolta ufficiale di leggi imperiali. Nel 529, e poi nella versione definitiva del 534, l’imperatore Giustiniano fece compilare il Codex Iustinianus, parte del famoso Corpus iuris civilis, che influenzò tutto il diritto europeo per secoli. Da quel momento, la parola codice divenne sinonimo di raccolta sistematica di norme. Quando oggi diciamo “Codice Civile” o “Codice della Strada”, stiamo riprendendo esattamente quell’eredità romana. Con il Medioevo e il Rinascimento, “codice” significava soprattutto manoscritto. Ancora oggi i filologi parlano di codici miniati, veri capolavori d’arte libraria. Dal Settecento in poi, col trionfo della razionalità giuridica, codice tornò ad essere soprattutto “corpo ordinato di leggi” (basti pensare al Codice Napoleonico del 1804). Poi, nel Novecento, la parola assunse nuovi significati: in biologia, il codice genetico è il sistema di corrispondenze tra DNA e proteine, cioè il linguaggio stesso della vita; in semiotica, “codice” significa l’insieme delle regole che rendono comprensibile un linguaggio, che sia quello delle parole, delle immagini o persino dei gesti; in informatica, “codice” è l’insieme delle istruzioni che fanno funzionare un programma, il cosiddetto codice sorgente. In tutti i casi, codice significa sempre “qualcosa che organizza, conserva e trasmette regole o contenuti”. 

Codice

ABBANDONARE, etimologia e significato

Oggi, la parola abbandonare ci fa pensare a gesti come lasciare qualcuno o qualcosa, smettere di occuparsene, o persino lasciarsi andare. Ma la storia di questa parola è molto più antica e ricca: parte dal linguaggio del diritto medievale, passa per il francese antico, si innesta su un termine germanico che indicava un ordine ufficiale, e risale infine a una radice protoindoeuropea legata al “parlare” e al “proclamare” in pubblico. Abbandonare arriva dall’antico francese abandonner, che significava letteralmente “mettere alla mercé di qualcuno” o “lasciare in balìa di qualcosa”. Questo verbo francese, a sua volta, derivava da una locuzione tipica del Medioevo: à bandon. À bandon voleva dire “sotto il potere” o “alla discrezione” di qualcuno. Dire, ad esempio, che un castello era “à bandon” significava che era lasciato senza difesa, aperto all’autorità o alla volontà di chi volesse prenderlo. Quando il francese abandonner passò in italiano, si adattò alla nostra morfologia in abbandonare. Curiosamente, l’“a” iniziale non è il prefisso latino “ab-” che indica allontanamento: è proprio la preposizione “a” della locuzione francese. Però, con il tempo, molti la reinterpretarono come “ab-” e questo spinse a raddoppiare le consonanti (bb, nn), come spesso accade in italiano dopo prefissi come ad-, ab-, ecc. Per capire davvero la parola dobbiamo fermarci su quel bandon. Era un termine del francese medievale che indicava il potere, l’autorità, la giurisdizione, spesso con una sfumatura militare o feudale. Chi aveva un “bandon” su un territorio, aveva il diritto di comandare, punire, proteggere o vietare. Bandon non deriva dal latino classico, ma da una parola germanica: ban. Il germanico ban (da cui il nostro bando) significava “proclamazione ufficiale fatta da un’autorità” — in pratica, un ordine gridato pubblicamente che tutti erano tenuti a rispettare. Questa proclamazione poteva avere due valenze opposte: positiva (convocare, ordinare di presentarsi) o negativa (vietare, mettere al bando, esiliare). 

Ecco quindi il percorso semantico:

Germanico ban = proclamare pubblicamente un ordine.

Dal germanico al latino medievale bannus/bandum = autorità di comando.

In francese antico bandon = potere, autorità, discrezione.

à bandon = alla mercé, sotto il potere di qualcuno.

abandonner = lasciare qualcuno o qualcosa alla mercé di altri → smettere di occuparsene.

abbandonare = lasciare, rinunciare, lasciar andare, anche in senso figurato.

Il germanico ban non è nato dal nulla: deriva da un verbo ricostruito della lingua protogermanica,  *bannaną, che significava “parlare pubblicamente, proclamare, comandare”. Questo a sua volta viene fatto risalire a una radice protoindoeuropea molto antica, *bʰeh₂-, che significa “parlare, dire a voce alta” (in sanscrito, bhánati = egli parla).

Ricapitolando, gli usi  della parola abbandonare nel tempo:

Medioevo: senso giuridico forte — “mettere in balìa” (di un’autorità, di un nemico, ecc.).

Letteratura: in Dante, per esempio, “abbandonare” conserva la forza dell’originale (“m’abbandona” = “mi lascia senza aiuto”).

Oggi: prevalgono i sensi più generici (“lasciare”, “rinunciare”, “lasciarsi andare”), ma in ambito legale si trova ancora l’uso tecnico: “abbandono dei beni”, “abbandono dell’azione”.

Abbandonare

SCRUPOLO, etimologia e significato

Il termine scrupolo deriva direttamente dal latino scrūpulus, un diminutivo della parola scrūpus, che significa “sassolino aguzzo, pietruzza appuntita”. Immaginiamo di camminare con un sassolino nella scarpa: non ci ferma, ma ci dà fastidio, ci costringe a pensarci a ogni passo. Così lo scrūpulus è diventato, in senso figurato, un piccolo disturbo della mente o della coscienza. Un “sassolino interiore” che non ci lascia andare avanti tranquilli, che ci punge come un pensiero insistente. Questa metafora era già ben viva nel latino classico. Cicerone, ad esempio, parlava di "crupulus conscientiae", il sassolino della coscienza.  A livello ancora più profondo, il termine scrūpus sembra essere collegato alla radice protoindoeuropea sker- (a volte ricostruita anche come ker-), che aveva il significato di “tagliare”, “scalfire”, “incidere”. Questa radice ha dato origine, in molte lingue europee, a parole che riguardano cose dure, appuntite o taglienti. Dunque scrūpus, il “sassolino appuntito”, potrebbe essere nato come parola che descrive qualcosa che graffia o punge, sia fisicamente che mentalmente. Nel tempo, soprattutto con l’espansione del cristianesimo, questa metafora del sassolino morale divenne sempre più comune. I Padri della Chiesa usavano il termine scrupulus per indicare i dubbi morali, le esitazioni della coscienza di fronte al bene e al male. Nella spiritualità cristiana medievale e poi nella teologia cattolica, avere uno scrupolo significava essere turbati da un dubbio etico o religioso, a volte anche in modo eccessivo. Si parlava addirittura di “coscienza scrupolosa”, cioè di quella persona che si tormenta per ogni piccola scelta, anche quando non ce n’è davvero bisogno. La parola scrupulus è passata in italiano senza troppe trasformazioni, diventando scrupolo già nel Medioevo. Il cambiamento è del tutto regolare: in italiano il suffisso latino -ulus diventa spesso -olo (come in globulus > globulo). Curiosamente, nel latino tardo scrupulus indicava anche una unità di misura molto piccola, usata in farmacologia: uno scrupulum = 1/24 di un’oncia romana. Anche in questo caso il significato rimanda alla piccolezza e alla precisione: scrupoloso è chi non tralascia nulla, neanche il dettaglio più minuscolo. Oggi, dire che qualcuno è scrupoloso significa che è molto attento, pignolo, preciso — proprio come chi non ignora neanche il più piccolo sassolino del dubbio.

Scrupolo

ZELO, etimologia e significato

Oggi, quando diciamo che qualcuno ha “zelo”, intendiamo che quella persona si dedica con grande impegno e passione a un compito, un ideale o una causa. Lo zelo è spesso visto come una qualità positiva: indica dedizione, entusiasmo, volontà di fare bene, a volte anche sacrificio. Ma in certi casi, lo zelo può diventare eccessivo, sconfinando nel fanatismo, nella rigidità, nell’ostinazione cieca. Questa ambivalenza non è casuale: affonda le sue radici in una storia molto antica, che attraversa il latino, il greco, e arriva  alle origini del linguaggio indoeuropeo.  La parola zelo deriva dal latino zelus, che significa sia “fervore” sia “gelosia”. Già qui troviamo la doppia anima del termine: da un lato il calore positivo della passione, dall’altro il morso oscuro dell’invidia. Il latino però non ha inventato questa parola: l’ha presa in prestito dal greco, dove troviamo Ζῆλος (zêlos), un termine molto usato nella filosofia, nella letteratura e perfino nella mitologia. Nel greco antico, zêlos significava: emulazione ardente, il desiderio di eguagliare (o superare) qualcuno che ammiriamo; invidia o gelosia, quando quel desiderio è avvelenato dal rancore; passione e fervore, specialmente in ambito religioso o politico. Ecco quindi che fin dalle origini greche la parola portava con sé questa ambivalenza: lo zelo può essere virtuoso o pericoloso, a seconda del sentimento che lo anima. Nel mondo greco, Zêlos era anche una figura mitologica: un daimon, una  divinità, figlio della dea Styx (la personificazione del fiume infernale) e fratello di Nike (la Vittoria), di Kratos (il Potere) e di Bia (la Forza). Insieme, rappresentavano le forze che accompagnano Zeus nel mantenere l’ordine e la giustizia. In questo contesto, Zêlos non impersona la gelosia meschina, ma il fervore eroico, l’energia che spinge a lottare per una causa. Con l’arrivo del cristianesimo, la parola latina zelus assume un nuovo significato spirituale: diventa il fervore per Dio, la dedizione totale alla fede e alla missione religiosa  Lo zelo diventa una virtù teologale, una forma di amore ardente, ma anche un'arma contro il male e la tiepidezza. La radice PIE  da cui  più probabilmente nasce Ζῆλος è una forma antica come *zel- o *yēl-, che avrebbe avuto un significato simile a “bruciare interiormente, ardere, risplendere”. Il legame con il fuoco interiore, con una fiamma che brucia nell’interiorità, è molto coerente con i significati dello zelo: è una passione che scalda, che consuma, che spinge all’azione.

Fonti principali consultate:

Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine

Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque

Pokorny, Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch

Beekes, Etymological Dictionary of Greek

DELI (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Cortelazzo-Zolli)

Sanskrit-English Dictionary, Monier-Williams

Zêlos