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MA, etimologia e significato

La congiunzione italiana ma è uno di quei piccoli elementi funzionali della lingua che, pur essendo brevissimi e frequentissimi, conservano una storia lessicale e una rete comparativa indoeuropea assai ricca. Infatti, in italiano moderno ma è la congiunzione coordinativa avversativa più comune (equivalente a «però», «tuttavia», «invece»). La spiegazione etimologica tradizionale e meglio documentata è che ma derivi dall’avverbio latino magis = più, comparativo dell’avverbio magnopere (da magnus = grande). La semantica originale di magis è «piuttosto, di più», cioè un marcatore comparativo; per gradi d’uso pragmatico è passato a esprimere contrasto: “non A, magis B” → «non A, ma B / piuttosto B», cioè valore avversativo o correttivo. Questo sviluppo — da ‘più / piuttosto’ a una congiunzione avversativa — è ricorrente nelle lingue romanze: confronto con francese mais, portoghese mas/mais ecc. Le principali lessicografie e saggi sulla funzione di ma confermano la derivazione da magis. 

Il cambiamento fonologico e morfologico può essere ricostruito schematicamente così: latino magis (avverbio comparativo) → riduzione e perdita della desinenza -is e assorbimento per analogia/uso colloquiale: magis > mais / mas in varie parlate romanze; in italiano settentrionale/centrale la forma si riduce ulteriormente a ma. La contrazione di magis in forme bisillabe e poi monosillabe è tipica delle evoluzioni di avverbi/funzioni ad alta frequenza.

Per risalire al livello proto-indoeuropeo dobbiamo osservare che magis è collegato alla famiglia di parole centrate su magnus ‘grande’, e che questa famiglia si ricostruisce nel proto-indoeuropeo con una radice ricostruita come *meǵh₂- / *meg- , che esprime il concetto di «grande, molto». Da questa radice derivano termini cognati in molte branche indoeuropee: greco μέγας (mégas), latino magnus (e quindi magis), sanscrito mahá- / mahát- (mahá ‘grande, potente’; mahát = «grande, importantissimo»), forme iraniche antiche (avarie come Avestico *maz-/*mazant-, medio persiano ms/mah), tochariche, celtiche e altre attestazioni. 

Ricapitolando, la congiunzione italiana ma discende direttamente dall’avverbio latino magis «più, piuttosto», che a sua volta è etimologicamente connesso all’aggettivo magnus ‘grande’ e alla radice proto-indoeuropea *meǵh₂- / *meg- (grande, più’). Il passaggio semantico da comparativo/preferenziale a congiunzione avversativa è spiegabile tramite usuali meccanismi di grammaticalizzazione: magis usato per contrapporre o rettificare alternative (piuttosto che) finisce per segnalare contrasto e si fossilizza come marcatore avversativo; la forma fonetica si riduce per frequenza e caduta delle desinenze. Il quadro è corroborato da repertori lessicografici dell’italiano e da studi indoeuropeistici e di etimologia latina. 

Bibliografia:

Treccani — Vocabolario: voce ma. (significato, etimologia e attestazioni letterarie). 

Treccani (Magazine) — articolo «Ma dai mille volti. Una congiunzione che va oltre» (analisi d’uso e collegamento a magis). 

Cuenca, M. J. — Contrastive Markers in Contrast (paper che discute la derivazione di ma da magis e la funzione contrastiva). -- OpenEdition Journals

Michiel de Vaan, Etymological Dictionary of Latin and the other Italic Languages (Brill, 2008) — analisi etimologica su magnus/magis e questioni morfologiche/ablaut.  -- Internet Archive.

Articoli specialistici su meĝh₂/*meg- (es. «Greek megas and Latin magnus 'great, big, large'» e lavori collegati): analisi della radice indoeuropea e dei riflessi nelle lingue figlie. -- Riviste PAN

Mallory & Adams, Encyclopedia of Indo-European Culture (1997) — per quadro comparativo indoeuropeo e lista di cognati. -- Internet Archive.

Ma...

ORDINE, etimologia e significato

La parola italiana ordine deriva direttamente dal latino ordo, ordinis – un sostantivo maschile che gli antichi Romani usavano per indicare una "fila" o una "schiera", ma anche il "rango" di una persona, la sua posizione sociale. Cicerone, il grande oratore romano, ci definisce precisamente cosa significasse: "compositionem rerum aptis et accommodatis locis" – cioè "l'arrangiarsi delle cose nei loro posti appropriati". Una definizione che è tutto fuorché banale.​ Ordo non significa semplicemente "fila", ma piuttosto "fila di cose messe in modo sensato, dove ogni cosa ha il suo posto giusto". Non è ordine arbitrario, bensì ordine razionale, ordinato secondo una logica interna. Se vogliamo capire il vero significato originario di ordo, dobbiamo guardare al verbo latino: ordiri, che significa "cominciare a tessere".​ Pensate a quello che fa una tessitrice quando si prepara a creare un tessuto. Prima di tutto, deve disporre sul telaio i fili verticali – quelli che gli Italiani chiamano ordito, dal latino orditus, participio passato di ordiri. Questi fili devono essere distesi con cura, paralleli, tesi alla giusta tensione, allineati perfettamente. Solo dopo aver disposto i fili dell'ordito in questo ordine rigoroso, si può cominciare a tessere, intrecciando i fili orizzontali della trama.​ Quindi, la parola "ordine" viene dal mondo del telaio, dal momento iniziale in cui la tessitrice prepara la base del tessuto. Da notare come il verbo ordiri non significa solo "disporre i fili", ma più generalmente "cominciare un'impresa". Dalla tessitura, il concetto si estende: iniziare qualcosa vuol dire "mettere le basi in ordine", proprio come la tessitrice prepara l'ordito.​

Gli studiosi di linguistica comparativa hanno dimostrato che il latino ordo non è il punto di origine. Sia il latino che il sanscrito antico, così come il greco, l'armeno e le lingue germaniche, derivano tutti da una radice ancora più antica, il protoindoeuropeo (abbreviato con PIE), la lingua parlata circa 6.000-7.000 anni fa dalle popolazioni che abitavano intorno al Caucaso e al Mar Nero.​ Questa radice protoindoeuropea si scrive convenzionalmente come *h₂er- e significa fondamentalmente "unire, adattare insieme, far combaciare".Comparando le lingue figlie. Nel sanscrito dell'India più antica, la lingua sacra dei Veda (testi religiosi composti tra il 1500 e il 1000 a.C., i più antichi documenti letterari del mondo indoeuropeo, la radice PIE *h₂er- genera il termine ऋत, trascritto come ṛta-. Qui il significato non rimane "unire, adattare", ma si trasforma in qualcosa di sublime. Ṛta-  significa "ordine cosmico", il principio universale che governa l'universo intero.​

Una delle evoluzioni semantiche più interessanti è come dal significato concreto "unire, adattare insieme" si sviluppi gradualmente il significato astratto "rettitudine, verità, ordine giusto". Nel sanscrito vedico, vediamo questo processo quasi in tempo reale. Ṛta- parte da un significato cosmico-fisico (l'ordine dei cicli celesti) e diventa gradualmente il principio della rettitudine morale. Non è che il significato cambi radicalmente – è una progressiva astrazione della stessa idea: ciò che è "appropriatamente unito insieme" nel cosmo è anche la "rettitudine" nel comportamento umano.​ Il latino rectus (dritto, giusto) riflette lo stesso processo: "retto" letteralmente significa "raddrizzato, dritto" (come una linea), ma metaforicamente significa "giusto, corretto". 

Nellla Roma antica, la metafora tessile iniziale di ordo si espanse verso significati sociali e politici. "Ordine" viene a designare il rango, la classe sociale: nell'antica Roma, gli ordines erano le classi sociali ben definite – l'ordo senatorius (l'ordine senatoriale), l'ordo equestris (l'ordine equestre), l'ordo plebeiorum (l'ordine dei plebei). Ogni ordine aveva le sue prerogative, i suoi doveri, il suo posto nella società.​ Da notare come il concetto originale rimanga: così come i fili dell'ordito devono stare in fila, ordinati e allineati, anche gli individui nella società devono stare al loro "ordine" – al loro posto nella gerarchia. La metafora della tessitura si trasforma in metafora della società organizzata. Più tardi, il cristianesimo applicherà lo stesso termine agli ordini religiosi: i Domenicani, i Francescani, i Benedettini – come comunità di religiosi che vivono secondo una regola (regula), cioè un ordine, un insieme di norme che organizzano la vita comunitaria proprio come i fili organizzano la tessitura.​

Quando l'etimologo esamina come una parola viene usata nello spazio pubblico e politico, scopre qualcosa di interessante: una stessa parola può diventare uno specchio di visioni del mondo diametralmente opposte. La parola ordine] è uno dei casi più illuminanti, perché in essa si concentra uno dei conflitti politici più profondi e duraturo della modernità. Se durante la Rivoluzione Francese un conservatore pronunciava la parola "ordine", intendeva una cosa ben precisa. Se a pronunciarla era un rivoluzionario, il significato cambiava completamente. E oggi, più di due secoli dopo, quella frattura semantica persiste, pur assumendo forme nuove.

Quando la destra politica utilizza la parola ordine], carica questa parola di significati ben specifici:​ per la visione conservatrice, l'ordine non è qualcosa di artificiale o costruito, bensì la riflessione nell'organizzazione sociale di gerarchie e diseguaglianze che sono "naturali", "inevitabili", "normali". Il mondo, insomma, per natura tende verso una strutturazione gerarchica. Le persone hanno capacità diverse, ambizioni diverse, e questa diversità si traduce naturalmente in una struttura piramidale dove alcuni comandano e altri obbediscono.​ Questa concezione affonda le radici nella tradizione medievale, ancora viva nel conservatorismo moderno: l' ordo saeculorum – l'ordine dei secoli – come struttura divina e immutabile della realtà. I tre ordini medievali (clero, nobiltà, popolo) erano visti non come imposizioni arbitrarie, ma come corrispondenti a funzioni diverse naturalmente necessarie nella società.​ Per il conservatore, l'ordine è legato indissolubilmente alla conservazione, al rallentamento del cambiamento. Un conservatore francese del XVIII secolo direbbe: l'Ancien Régime rappresenta l'ordine – non perché sia perfetto, ma perché è testato dal tempo, collaudato dalla storia, pratico e funzionante. Il motto dei teologi medievali, traslato in politica, è significativo: "Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus" (ciò che è sempre stato, dovunque, da tutti) – la caratteristica dell'ordine tradizionale.​ Nella visione di destra, l'ordine si contrappone al caos, all'anarchia, alla dissoluzione. Senza ordine, senza gerarchia, senza autorità che impone regole, subentra il caos – inteso come uno stato di guerra di tutti contro tutti, di diritti confliggenti senza risoluzione, di desideri scontenti che generano violenza. L'ordine, quindi, è ciò che salva la società dalla disgregazione.​ Ecco perché i conservatori, storicamente, usano la parola "ordine" per stigmatizzare i movimenti di sinistra: per loro, le rivoluzioni portano "disordine", la dissoluzione di strutture collaudate, il caos.​

Quando la sinistra politica pronuncia la parola ordine, essa carica il significato in modo completamente diverso:​​ per la sinistra, l'ordine non è naturale – è costruito, razionale, volontario. L'ordine non emerge da gerarchie immutabili, ma da una disposizione intelligente delle cose secondo il principio della giustizia e dell'uguaglianza.​​ Se riprendiamo la definizione di Cicerone che abbiamo esaminato all'inizio – "la composizione delle cose nei loro posti appropriati" – la sinistra la reinterpreta: cosa significa "appropriato"? Non "appropriato per natura", ma "appropriato secondo la giustizia, secondo la ragione".​ Per i conservatori, l'ordine è ciò che esiste già; per i rivoluzionari, l'ordine è ciò che deve ancora essere costruito. Entrambi aspirano all'ordine – ma hanno visioni diametralmente opposte di cosa esso sia.​​  Un aspetto cruciale della concezione di sinistra è che l'ordine deve essere equo, cioè egualitario. Se la destra vede naturale una piramide con pochi al vertice e molti alla base, la sinistra dice: questo non è ordine, è ingiustizia organizzata.​ La sinistra propone cioè un ordine dove le risorse siano distribuite secondo criteri di equità, dove i diritti siano uguali per tutti, dove la gerarchia sia ridotta al minimo. In questo senso, la parola "ordine" per la sinistra significa "coordinamento dei mezzi per il bene comune", come un' orchestra dove ogni strumento ha pari dignità.​​ Qui c'è un elemento temporale da sottolineare dal punto di vista etimologico. Come già accennato, il latino ordiri significa "iniziare, cominciare", spesso riferito al momento in cui si comincia a tessere il tessuto?. La sinistra recupera questo significato: l'ordine è il momento in cui si "inizia" – quando si comincia a tessere una realtà nuova, quando gli uomini prendono il controllo conscio della storia., quale costruzione cosciente, pianificata, di un ordine migliore.​

Ordine

SPILORCIO, etimologia e significato

L'etimologia della parola spilorcio rimane ufficialmente incerta. Tuttavia, la spiegazione più accreditata e suggestiva ci viene dalla Firenze del Seicento, dalle "Note al Malmantile Racquistato".​ Il Malmantile Racquistato è un poema eroicomico scritto da Lorenzo Lippi, un pittore fiorentino, tra il 1643 e il 1644. Lippi era alla corte di Claudia de' Medici ad Innsbruck, e decise di scrivere una parodia grottesca della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. L'opera racconta, in dodici canti, una strana guerra tra la regina legittima Celidora e l'invasatrice Bertinella per il controllo del reame di Malmantile, con tanto di draghi, demoni, maghe e diavoli.​ Quello che rende straordinario il Malmantile non è tanto il poema in sé, ma il modo in cui è scritto: è farcito di espressioni, motti e proverbi della Firenze popolare del primo Seicento, ricco di quella vivacità, comicità e malizia del parlare ordinario. Il linguaggio è così specifico, così ricco di dialetto e di peculiarità locali, che quando il poema fu pubblicato postuma nel 1676, il duca Leopoldo decise di far allegare delle note spiegative per permettere ai non-fiorentini di comprendere.​ Queste note furono scritte da Paolo Minucci (che si firmò con lo pseudonimo Puccio Lamoni), erano ricchissime di erudizione linguistica e folcloristica, e rappresentano un vero tesoro per chiunque voglia comprendere il linguaggio popolare fiorentino del Seicento.​ Proprio in queste Note del 1675, quando Minucci spiega il significato di "spilorcio", ricorre a una definizione che ha del geniale.​ Secondo Paolo Minucci, la parola deriverebbe da pilorcio. Ma cos'è il pilorcio? È un termine tecnico dell'arte conciaria. Nella bottega del conciatore, dove si lavorano le pelli, il pilorcio designa specificamente i cascami della lavorazione: i ritagli di pelle che non hanno alcun valore commerciale, gli scarti che rimangono dopo aver ricavato le parti buone.​ Questi ritagli, questi frammenti inutilizzabili, non venivano buttati semplicemente nel mucchio dei rifiuti. Nell'economia medievale e rinascimentale, anche gli scarti potevano avere un'utilità: venivano raccolti, opportunamente lavorati e trasformati in fertilizzante organico per i campi.​ Se il pilorcio è il ritaglio senza valore, allora lo spilorcio è colui che "misura il pilorcio". È la persona che tiene il conto anche di ciò che non ha valore, che nella sua grettezza estrema calcola, pesa, misura anche gli scarti.​ Mentre l'avaro comune è semplicemente chi non vuole spendere soldi, invece lo spilorcio non è solo chi non genera e non dà: è colui che sa quantificare persino l'inutile, che ha sviluppato un calcolo così nevrotico da applicarlo perfino ai cascami, alle cose che dovrebbero essere lasciate andare.​ È una persona che non conosce generosità, che "trascura bellamente ogni regola di cortesia e di giustizia pur di non dare del suo". Non è oculato nel senso di prudente: è attaccato, ossessionato, schiavo del denaro.​

Una seconda pista etimologica porta al  termine pidocchio. Il pidocchio, nei dialetti italiani, è da sempre associato all'idea di parassita, di persona miserabile. Nel dialetto napoletano, ad esempio, "pidocchioso" significa direttamente "avaro". La metafora è comprensibile: il pidocchio è un parassita che vive succhiando il sangue dell'ospite. E non si toglie facilmente, rimane attaccato, testardo, come l'avaro rimane attaccato ai suoi soldi.​ Il latino pediculus (pidocchio) viene da pedis, e le sue origini più lontane risalgono a radici della lingua protoindoeuropea. Però il passaggio fonetico da "pidocchio" a "spilorcio" presenta delle difficoltà serie: come può una /p/ iniziale trasformarsi in /sp/, come può il suono /dd/ diventare /l/, come puoi perdere la vocale finale?. Non è impossibile, ma risulta linguisticamente difficile da spiegare senza ricorrere a forme intermedie che non troviamo documentate.​

Alcuni dizionari etimologici, come il Devoto-Oli, suggeriscono una terza strada: forse spilorcio è una composizione di due elementi, piluccare (che significa "staccare poco a poco, spezzare in frammenti") e scorcio (che significa "riduzione, abbreviazione").​ L'idea sarebbe che lo spilorcio sia colui che "pilucca gli scorcetti", cioè che fa le riduzioni e i conteggi al millimetro. È una spiegazione elegante, ma presenta due problemi. Primo, la formazione morfologica risultante non segue i normali pattern composivi dell'italiano. Secondo, non abbiamo attestazioni storiche che documentino questa composizione in opera.​

Per concludere, spilorcio è una di quelle parole che rimane viva  nel linguaggio italiano, soprattutto in Toscana, ma anche in tutta Italia. Il termine spilorcio non sta semplicemente descrivendo un comportamento; sta contemporaneamente anche stigmatizzandolo: gli altri sinonimi hanno sfumature diverse. "Avaro" è diventato più "nobile", quasi paradigmatico, usato nelle discussioni filosofiche o letterarie. "Taccagno" suona più affettuoso, quasi tollerante, come quando descrive la nonna che non vuole sprecare il pane. "Tirchio" ha un'effetto meno sprezzante.

Fonti principali: 

  • Note al Malmantile Racquistato (1675);
  • Dizionari etimologici (Pianigiani, Devoto-Oli, Treccani):
  • Grande Dizionario della Lingua Italiana (GDLI); 
  • Studi di linguistica storica.
Spilorcio

CORTIGIANO, etimologia e significato

Per capire davvero da dove viene "cortigiano", dobbiamo fare un salto indietro nel tempo fino a circa 4000-5000 anni fa, quando i nostri antenati indoeuropei – popoli che ancora non conoscevano la scrittura – usavano una lingua che oggi chiamiamo protoindoeuropeo (o PIE, dalla sigla inglese). Questa lingua ancestrale è la madre comune di tantissime lingue moderne: dall'italiano al greco, dal sanscrito all'inglese, dal russo al persiano.​ In questa lingua antica esisteva una radice, ʰer- , che esprimeva un'idea molto concreta e pratica: "afferrare, racchiudere, cingere". Questa radice esprimeva proprio quell'azione fondamentale del "mettere un confine", del "circondare uno spazio per proteggerlo".​C'era anche una variante leggermente diversa, ǵʰerdʰ- , che metteva ancora più enfasi sull'idea di "recinto" e "cinta protettiva". Quando i popoli indoeuropei migrarono verso est, portando con sé la loro lingua e la loro cultura, questa antica radice si trasformò. In sanscrito – la lingua sacra dell'India antica, quella dei Veda (i testi religiosi più antichi dell'umanità, risalenti a circa 3500 anni fa) – nacque la parola गृह, pronunciata "gṛhá".​ Gṛhá significa semplicemente "casa, dimora", ma mantiene intatto quel senso originario di "spazio protetto e recintato". Nei testi vedici, questa parola non indica solo l'edificio fisico, ma l'intera idea di "focolare domestico". Nel mondo greco antico, la stessa radice prese una strada leggermente diversa. I Greci svilupparono la parola χόρτος (khórtos), che significava "pascolo, recinto per animali". Ancora una volta, il significato fondamentale rimane: uno spazio delimitato, circoscritto, protetto. In Grecia, dove l'allevamento delle greggi era fondamentale, la parola si specializzò per indicare proprio quei terreni recintati dove pascolavano gli animali.​ Successivamente, il latino sviluppò due parole dalla stessa radice ancestrale: hortus e cohors.​ quast'ultima è  composta:dal prefisso co-(una forma di com-, "insieme, con") si unisce alla radice -hors (affine a hortus). Il significato originale era quindi "spazio recintato insieme", "recinto collettivo".​ Inizialmente, cohors indicava il cortile della fattoria romana, l'aia, quello spiazzo recintato davanti alla villa dove si svolgevano le attività quotidiane. Ma i Romani, estesero il significato: se cohors era lo spazio dove si radunavano persone e animali, allora poteva indicare anche il "gruppo di persone" che occupava quello spazio.​ Cohors divenne il termine tecnico per indicare la "coorte militare" (la decima parte di una legione romana, circa 500 uomini) e anche la "guardia del corpo del comandante", il suo seguito personale. Vi fu il passaggio semantico: da "cortile" a "gruppo di persone nel cortile" a "guardia personale" a "seguito di persone importanti". È proprio questo slittamento di significato che porterà, secoli dopo, al nostro "cortigiano".​ Nel latino medievale cohors divenne cors-cortis, forma più facile da pronunciare. Da qui, in italiano, nacque la parola corte.​ All'inizio, corte mantenne il significato originario di "cortile", lo spazio aperto e recintato di una residenza. Ma gradualmente, attraverso un processo che gli linguisti chiamano "metonimia" (quando una parola assume il significato di qualcosa di strettamente collegato), corte passò a indicare:​

Il cortile → l'intera residenza signorile

La residenza → le persone che vi abitano

Le persone → l'ambiente nobiliare che circonda il signore o il re

L'ambiente → l'istituzione stessa del potere sovrano​

Nel Medioevo e soprattutto nel Rinascimento, la "corte" divenne il centro della vita politica, culturale e sociale ove si prendevano le decisioni politiche, si celebravano matrimoni dinastici, si producevano opere d'arte, si componeva musica, si discuteva di filosofia. La corte era uno spazio esclusivo, raffinato, entro il quale nobili, intellettuali, artisti e militari convivevano in un sistema gerarchico complesso ma affascinante.​ Nel XIV secolo, quando l'italiano stava definitivamente prendendo forma come lingua letteraria, qualcuno ebbe bisogno di una parola per indicare "chi appartiene alla corte", "chi vive nell'ambiente della corte".​ Giovanni Boccaccio, nel suo capolavoro del Trecento, il Decameron, usava già cortigiano per indicare semplicemente "chi vive a corte" o "l'addetto alla corte con un grado onorifico".​ Ma è con Baldassarre Castiglione, nel 1528, che il termine raggiunge la sua massima espressione. Castiglione scrisse un'opera destinata a diventare un bestseller europeo: Il Libro del Cortegiano . In questo dialogo ambientato nella raffinata corte di Urbino, Castiglione dipinge il ritratto del perfetto uomo di corte.​ Il cortigiano ideale di Castiglione non è un semplice adulatore o un servitore passivo. È un uomo completo, universale: deve essere valoroso nelle armi ma anche colto nelle lettere; deve saper ballare, suonare strumenti musicali, conversare brillantemente; deve essere elegante senza affettazione, coraggioso senza ostentazione. Il cortigiano, secondo Castiglione, ha anche un ruolo politico importante: deve essere il consigliere fidato del principe, guidandolo verso decisioni giuste, equilibrate, orientate al bene comune. È un ideale che mescola la tradizione cavalleresca medievale con la cultura umanistica rinascimentale.​ Il successo del libro fu straordinario: venne tradotto in tutte le lingue europee e divenne il manuale di riferimento per chiunque volesse imparare come comportarsi in società. La parola cortigiano acquisì quindi una ricchezza di significati: non era più solo "chi sta a corte", ma rappresentava un intero modello culturale, un ideale di raffinatezza, educazione e virtù.​ Accanto al maschile cortigiano, si formò regolarmente il femminile cortigiana (antico cortegiana). All'inizio, anche questo termine aveva un significato positivo e neutro: "donna di corte", signora che partecipava alla vita della corte. Lo stesso Castiglione, nel suo libro, dedica ampio spazio a descrivere le virtù della perfetta "donna di palazzo" (lui evitava il termine cortigiana proprio perché già allora stava assumendo connotazioni problematiche).​ Purtroppo, già nel XVI secolo, cortigiana cominciò a subito uno slittamento semantico negativo. Il motivo è legato alle ambiguità e alle relazioni amorose che spesso si sviluppavano nelle corti rinascimentali: i matrimoni nobiliari erano combinati per ragioni politiche, e non era raro che principi e nobili cercassero affetto e compagnia altrove. Alcune donne di corte divennero famose come amanti dei signori, e il termine cortigiana doveva a indicare proprio questo ruolo.​ Da "amante del signore", il significato scivolò ulteriormente verso "donna di costumi liberi" e infine "prostituta d'alto rango". A Venezia, per esempio, nel Cinquecento esistevano le famose "cortigiane oneste" (colte, raffinate, spesso poetesse e musiciste) e le "cortigiane di lume" (prostitute comuni). Col tempo, l'accezione negativa ha completamente soppiantato quella originaria, tanto che oggi cortigiana è , in genere, considerato un termine offensivo.​

Fonti principali consultate : 

Vocabolario Treccani, 

Wikizionario (sezioni latino, greco, sanscrito, protoindoeuropeo), 

Dizionario di etimologia online, 

studi accademici sulla linguistica comparativa indoeuropea e sulla cultura rinascimentale.​

Cortigiani

ABBINDOLARE, etimologia e significato

La parola abbindolare: chi non l'ha mai sentita? "Non farti abbindolare da quel venditore!", diciamo, oppure "Si è lasciato abbindolare dalle sue promesse". Ma pochi sanno che dietro questo verbo apparentemente semplice si cela un viaggio incredibile attraverso millenni di storia umana, che ci porta dalle antiche tribù protoindoeuropee fino agli artigiani italiani del Medioevo. La storia inizia con un oggetto umilissimo: il bindolo, cioè l'arcolaio, quello strumento che le nostre nonne usavano per avvolgere ordinatamente il filo in gomitoli. Chi ha mai visto lavorare al telaio sa bene com'è fatto: una struttura di legno con delle stecche su cui il filo viene riavvolto, girando e rigirando, in movimenti ipnotici e continui. Ed è proprio qui che nasce la magia linguistica. I nostri antenati, osservando questo movimento circolare, continuo e un po' ossessivo del filo che si avvolge su se stesso, ci hanno visto qualcosa di familiare: il modo in cui una persona astuta "avvolge" la sua vittima con parole seducenti, facendola girare in tondo fino a confonderla completamente.

Ma da dove arriva la parola bindolo? Tutto inizia circa 6000 anni fa, quando i nostri lontanissimi antenati protoindoeuropei - quelli che parlavano la lingua madre da cui sono nate tutte le lingue europee e molte asiatiche - usavano una radice chiamata **wendh-** che significava "girare, avvolgere, torcere". La radice **wendh-** non rimase ferma. I popoli germanici la ereditarono, facendola diventare **windaną**, che voleva dire "avvolgere, girare". Da questa parola germanica  nacquero tanti termini che usiamo ancora oggi: l'inglese "wind" (avvolgere), il tedesco "winden" (torcere), e soprattutto l'alto tedesco antico "winde", che indicava proprio un argano, una macchina per sollevare pesi.

Durante le grandi migrazioni del primo millennio dopo Cristo, i popoli germanici entrarono in contatto stretto con il mondo romano. Longobardi, Goti, Franchi non portarono solo le loro armi e le loro leggi, ma anche le loro parole. Il termine germanico "winde" (argano, macchina per sollevare) si adattò alla lingua italiana diventando prima "binda" - che ancora oggi in alcune regioni del Nord significa "martinetto" - e poi "bindolo". Il passaggio dalla "w" germanica alla "b" italiana è un fenomeno normalissimo: è lo stesso che troviamo in "guerra" (dal germanico "werra") o in "guardia" (dal germanico "wardja"). Una volta in Italia, la parola cambiò significato. Se in origine "winde" indicava genericamente un argano per sollevare pesi, in italiano "bindolo" indicò specificamente l'arcolaio, quello strumento che serviva per avvolgere i fili. Da ciò, il significato metaforico: così come il filo viene "abbindolato" sull'arcolaio - avvolto, riavvolto, fatto girare in tondo fino a perdere il capo e la coda - allo stesso modo una persona astuta può "abbindolare" la sua vittima con parole seducenti, facendole perdere il senso dell'orientamento. I dizionari più autorevoli - dal Grande Dizionario della Lingua Italiana dell'Accademia della Crusca al Dizionario Etimologico di Cortelazzo e Zolli - confermano tutti questa ricostruzione. Non ci sono altre teorie  plausibili: quando usiamo abbindolare, stiamo inconsapevolmente celebrando la genialità linguistica dei nostri predecessori, che sono riusciti a cogliere l'analogia perfetta tra il movimento ipnotico del bindolo e il meccanismo psicologico dell'inganno.

Abbindolare

CIOFECA, etimologia e significato

Nei dizionari moderni italiani ciofeca è registrata come voce di area romanza/meridionale con prima attestazione bibliografica relativamente recente (catalogata in alcuni repertori intorno al 1900–1905). Il significato più antico riportato è «bevanda di sapore cattivo» (soprattutto surrogati del caffè: orzo, ghiande, fave, ecc.), poi esteso a «oggetto o cosa di qualità scadente»

L'ipotesi etimologica più accreditata, riportata da importanti repertori italiani come Treccani, individua l'origine della parola ciofeca nel castigliano/valenziano "chufa" (tubero usato per fare la horchata), passata attraverso i dialetti meridionali come nome di bevanda, poi evoluta fonologicamente e semanticamente in ‘bevanda di scarsa qualità / surrogato’. La voce spagnola chufa è attestata in spagnolo e catalano, e i lessicografi la collegano ad antichi termini latini/greci (p.es. cyphi, dal latino/greco) e al lungo uso della pianta nell’area mediterranea; la chufa è storicamente associata a una bevanda popolare (horchata) introdotta nella penisola iberica in periodo medievale grazie al contatto arabo-islamico in Spagna.

Altri autori e divulgatori sostengono che ciofeca provenga da un termine arabo (segnalati varianti šafaq, safek, o forme dialettali) che indicherebbe una bevanda debole o poco energetica; questa ipotesi è collegata alla presenza della lingua araba nel Sud Italia medievale, ma non trova rilevanti riscontri lessicografici.

Poiché la seconda parte della parola "-feca" richiama foneticamente feccia (dal latino faex, «deposito, feccia»), è stata proposta una lettura composita: ciu(-/cho)- (da chufa/ciufa) + -feca (da faex/feccia) cioè «bevanda di scarto a base di chufa», ossia ciofeca come «infima parte» della bevanda. Questa ipotesi è più ricostruttiva e meno attestata lessicograficamente, ma spiega la forma grafica e la connotazione negativa («schifezza, feccia»).

Alla luce delle fonti disponibili (dizionari etimologici iberici, repertori italiani, studi etnobotanici divulgativi) la spiegazione chufa = ciofeca è la più plausibile e la più documentata in bibliografia corrente, mentre altre ipotesi restano possibili ma meno plausibili e sostenute.


Bibliografia:

  • Treccani, Vocabolario — voce ciofèca.  Treccani
  • De Mauro, Dizionario (voce ciofeca, nota attestativa). Internazionale
  • RAE / Diccionario de la lengua española — voce chufa.  dle.rae.es
  • Wiktionary / voce chufa (etimologia sintetica: lat. cyphi ← gr. κῦφι ← egiz.). Wiktionary
  • Articoli etnobotanici e divulgativi su ciofeca (es. rapporti su infusi di ghiande e ricerche di Carmine Lupia). 
  • EtymOnline / voce faeces/faex (per lat. faex → it. feccia). Dizionario Etimologico Online
Ciofeca

CODICE, etimologia e significato

Quando oggi diciamo codice, pensiamo subito a un libro di leggi, a un codice penale o civile, o magari al codice sorgente di un programma informatico. Ma le radici di questa parola affondano in un terreno molto più semplice e concreto: il legno. In latino esisteva il termine caudex (poi scritto anche codex), che significava tronco d’albero, ceppo. Da quel tronco, tagliandolo a fette sottili, si ricavavano tavolette di legno rivestite di cera: su quelle tavolette gli antichi Romani scrivevano con uno stilo. Erano i loro “quaderni” primitivi. È così che caudex passò a significare tavoletta per scrivere, e poi, con un salto naturale, libro. Con il tempo, le tavolette legate insieme furono sostituite da fogli piegati e cuciti, dando vita al formato librario che chiamiamo ancora oggi codex (in inglese si dice proprio codex, quando si parla dei grandi manoscritti antichi). Il codice era molto più pratico del rotolo (volumen), perché permetteva di sfogliare le pagine, tornare indietro, fare indici. Per questo, tra il III e il IV secolo, il codice soppiantò il rotolo e diventò il formato librario per eccellenza. Quando l’Impero Romano cominciò a raccogliere in un unico libro le leggi emanate dagli imperatori, quel libro prese il nome di Codex. Nel 438 venne pubblicato il Codex Theodosianus, la prima grande raccolta ufficiale di leggi imperiali. Nel 529, e poi nella versione definitiva del 534, l’imperatore Giustiniano fece compilare il Codex Iustinianus, parte del famoso Corpus iuris civilis, che influenzò tutto il diritto europeo per secoli. Da quel momento, la parola codice divenne sinonimo di raccolta sistematica di norme. Quando oggi diciamo “Codice Civile” o “Codice della Strada”, stiamo riprendendo esattamente quell’eredità romana. Con il Medioevo e il Rinascimento, “codice” significava soprattutto manoscritto. Ancora oggi i filologi parlano di codici miniati, veri capolavori d’arte libraria. Dal Settecento in poi, col trionfo della razionalità giuridica, codice tornò ad essere soprattutto “corpo ordinato di leggi” (basti pensare al Codice Napoleonico del 1804). Poi, nel Novecento, la parola assunse nuovi significati: in biologia, il codice genetico è il sistema di corrispondenze tra DNA e proteine, cioè il linguaggio stesso della vita; in semiotica, “codice” significa l’insieme delle regole che rendono comprensibile un linguaggio, che sia quello delle parole, delle immagini o persino dei gesti; in informatica, “codice” è l’insieme delle istruzioni che fanno funzionare un programma, il cosiddetto codice sorgente. In tutti i casi, codice significa sempre “qualcosa che organizza, conserva e trasmette regole o contenuti”. 

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